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martedì 21 giugno 2022

TABU'

intermezzo nella lunga serie "Sull'orlo del baratro"


Miscellanea di estratti da alcuni vocabolari on line della lingua italiana


tabù (anche, ma solo nel sign. proprio e nell’uso scient., tabu) s. m. e agg. [dal fr. tabou,  ingl. taboo, adattam. di voce polinesiana].

In etnologia e in storia delle religioni, interdizione o divieto sacrale di avere contatto con determinate persone, di frequentare certi luoghi, di cibarsi di alcuni alimenti, di pronunciare determinate parole, e sim., imposti per motivi di rispetto, per ragioni rituali, igieniche, di decenza o per altri motivi 

In psicanalisi, il termine indica ogni atto proibito, oggetto intoccabile, pensiero non ammissibile alla coscienza, come nel caso emblematico dell’incesto.  In partic., t. verbale o lessicale, la tendenza a evitare certe parole o locuzioni per motivi di decenza, di rispetto religioso o morale, di convenienza sociale: certe parti del corpo e funzioni fisiologiche, per tabù, vengono nominate con eufemismi.

Divieto di fare certe cose o di pronunciare parole o di avere rapporti con persone considerate sacre: violare un t.; la cosa o la persona oggetto di tale divieto estens. Tutto ciò che è oggetto di un divieto senza fondamento oggettivo o ciò di cui si preferisce non parlare.

«La parola tabù esprime due opposti significati: in un senso significa sacro, consacrato, nell'altro, sinistro, pericoloso, proibito, impuro. [...] Possiamo in genere pensare che al significato di tabù corrisponda spesso il nostro «orrore sacro» »(Sigmund Freud)

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Sembrerebbe roba da retrogradi & primitivi. Così non è.  Vigono ancora oggi nel nostro avanzatissimo, ipertecnologico, democratico nonché benestante (anche stante Bene?) "Occidente". E non solo. Purtroppo.

Per fortuna c'è ancora qualcuno che che cerca di infrangerli. Ragionando e invitandoci a ragionare. Una boccata di salutare Senso nei soffocanti miasmi dell'ottusità a base di P.U. (Pensiero Unico).

GRAZIE Piero


La proposta pro-resa

Il coraggio di arrendersi

Piero Sansonetti  (Il Riformista) 12 Marzo 2022


Dopo più di vent’anni di battaglie furiose, perse e vinte, con il corpo e il volto carichi di cicatrici, il 19 luglio del 1881 Toro Seduto si arrese all’esercito degli invasori. Cioè agli americani. Lo fece per salvare il suo popolo, perché aveva capito che ormai non poteva più sconfiggere i soldati blu, e poteva solo provocare altre morti tra i suoi. Fece bene? Non so, dal momento che poi i vincitori non furono molto generosi, sicuramente si comportò da capo. Si fece arrestare per salvare vite umane.

Quasi duemila anni prima, più o meno nel cinquanta avanti Cristo, un grande guerriero francese, che veniva chiamato Vercingetorige, dopo avere più volte sconfitto le legioni romane, guidate da Giulio Cesare, vedendosi chiuso nell’assedio della città di Alesia, e capendo che non avrebbe più potuto vincere, si arrese e chiese pietà a Giulio Cesare per il suo popolo, si gettò in ginocchio e offrì la sua vita in cambio della salvezza dei Galli. Cesare accettò, lo fece prigioniero, lo usò per rendere più sfarzose le sue feste, mostrandolo in catene, lo umiliò in ogni modo e poi lo fece strangolare. Oggi però i francesi vanno orgogliosi di quel loro antico eroe, che, in fondo, fu proprio il primo eroe della futura Francia e della futura Europa. Si diceva che fosse il capo dei barbari. Ma forse il barbaro era Cesare. Nessuno, immagino, vorrà dirmi che Toro Seduto o Vercingetorige fossero dei vigliacchi. Erano dei guerrieri. Coraggiosissimi e anche geniali. Dicono gli storici che avevano doti strategiche e militari sconosciute e straordinarie.

Vercingetorige, se ho capito bene, è l’inventore della guerriglia. Toro Seduto della sorpresa e dell’agguato. Non erano mica dei perdenti. Cesare più volte fu costretto alla fuga. E il generale Custer era convinto di travolgere i Sioux e poi, con una medaglia sul petto, di partecipare alle elezioni del presidente degli Stati Uniti del 1876. Sognava la Casa Bianca. Così li attaccò a Little Big Horn, in luglio, vigilia elettorale. Ma i sioux, a sorpresa, contrattaccarono, sterminarono il settimo cavalleggeri e uccisero Custer. Alla Casa Bianca andò il pacifico governatore dell’Ohio. Si chiamava Rutheford Hayes. Eppure questi due grandi guerrieri – il francese e il Sioux – si arresero. La resa è viltà? È vergogna? È rinuncia? Naturalmente non esiste un principio generale. Alle volte la resa è rinuncia e sconfitta. Alle volte no. Nel settembre del 1943 l’Italia si arrese agli anglo-americani e fece benissimo ad arrendersi. Sebbene lo fece in modo poco onorevole, con la precipitosa fuga da Roma del Re e dei generali e con l’abbandono di un esercito e di un popolo allo sbando. Il contrario di quello che avevano fatto Vercingetorige e Toro seduto. Loro avevano offerto se stessi e i propri corpi per la salvezza dei loro soldati e del popolo. I Savoia offrirono al nuovo nemico, ai tedeschi, il proprio popolo in cambio della loro salvezza.

Ieri Alberto Cisterna, magistrato prestigioso ed esperto, intellettuale, collaboratore molto attivo sul nostro giornale, ha avanzato l’ipotesi che in certe condizioni la resa sia un dovere. E il riferimento esplicito era all’Ucraina. Forse proprio la crudezza della parola ha creato molte polemiche. “Resa”. Resa è una parola impronunciabile nella retorica secolare e corrente. È la fine della dignità, o della virilità, del coraggio, del patriottismo. Io non ho alcun disprezzo – anche se non li ho mai sentiti miei – per valori come quelli della dignità, del coraggio, del patriottismo, e non ho mai pensato che chi li pone al vertice del proprio pantheon etico sia una persona che non merita rispetto e ammirazione. Così come continuo sinceramente a stimare le persone che vorrebbero una soluzione di forza e di guerra per l’Ucraina, e che pensano che la sconfitta dei russi, la più dura possibile, sia l’unica via d’uscita dalla crisi. Quando le questioni delle quali si discute sono così complesse e tragiche non c’è niente di più sciocco che dividersi in squadre e indicare come utile idiota chi non la pensa come te. Pubblichiamo un articolo molto bello di Paolo Guzzanti, che sostiene tesi opposte alle mie. E Bobo Craxi dà un giudizio ancora più severo sull’ipotesi della resa. Beh, vi assicuro che Bobo, e Paolo ed io possiamo continuare a discutere di queste cose per tutto il tempo necessario senza perdere un grammo di stima l’uno verso l’altro.

Io chiedo solo che tutte le posizioni siano considerate legittime. Anche quella estrema che ha espresso Alberto Cisterna e che io condivido in pieno. Dalla prima all’ultima riga. E chiedo che l’idea di chi pensa che risparmiare qualche centinaio o qualche migliaio di morti sia, in questo frangente, non un’opzione ma un dovere, e che talvolta le ragioni supreme della politica e degli stati, e anche dei popoli intesi come “indefinito collettivo”, siano meno supreme di quelle della difesa della vita di singole persone umane, sia considerata una idea possibile. Le ragioni di questa mia posizione risiedono, più o meno, nel vecchio e glorioso pensiero pacifista. Del quale l’Italia è stata una delle culle. Il pensiero di San Francesco, di Teodoro Moneta, di Primo Mazzolari, di Aldo Capitini, di Alex Langher. È il pensiero di vecchi utopisti? Può darsi. O forse invece è il cemento della civiltà moderna. Io sono più per la seconda ipotesi.

Piero Sansonetti

Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.


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